Perchè cinque milioni di italiani pensano che l’IA sia una minaccia?

Cosa pensano gli italiani dell’Intelligenza Artificiale? Questo argomento è particolarmente interessante, perchè si parla sempre più spesso delle nuove tecnologie, anche con toni allarmistici. In effetti, l’IA è percepita come una minaccia da una larga fetta della popolazione, che crede che sia potenzialmente “pericolosa”. Da un’indagine commissionata da Facile.it agli istituti di ricerca mUp Research e Norstat si scopre infatti  che quasi 5 milioni di persone in Italia considerano l’intelligenza artificiale (AI) una minaccia. 

Opportunità? In molti non lo credono

Lo studio, condotto su un campione rappresentativo della popolazione, evidenzia che tra i più giovani c’è una prevalenza dell’idea che l’AI possa essere un’opportunità. A livello nazionale, il 34,5% vede vantaggi nell’utilizzo dell’IA, percentuale che sale al 40,4% tra i 25-34enni e addirittura al 53,5% nella fascia 18-24 anni. Tuttavia, all’aumentare dell’età, crescono i dubbi, con l’18% degli intervistati oltre i 55 anni che considera l’IA solo come una minaccia.

Le paure legate alle nuove tecnologie

Quanto ai rischi legati all’IA, il 52,6% teme che possa essere sfruttata da malviventi per azioni fraudolente, mentre il 39,6% pensa che possa diventare incontrollabile. Il 39% si dice preoccupato per l’invadenza di contenuti falsi online generati dall’IA, e oltre 5,6 milioni temono la perdita del lavoro, principalmente tra i giovani.

I rischi delle novità

L’analisi sottolinea che la tecnologia in generale, non solo l’IA, porta a rischi sempre più sofisticati. Circa 13 milioni di italiani hanno subito almeno una volta un crimine informatico, con accessi non autorizzati agli strumenti di pagamento personali (oltre 6,5 milioni), furto di identità/immagine (circa 2,5 milioni), diffusione non autorizzata di materiale digitale (quasi 2,3 milioni) e furto di identità con sottoscrizione di contratti (2,2 milioni).

Una copertura contro i “nuovi” pericoli

Rispetto a questi rischi, sono disponibili polizze assicurative che tutelano dai problemi derivanti dagli attacchi informatici. Tuttavia, il 61,4% degli italiani non ne è a conoscenza, e solo il 3% ha sottoscritto un’assicurazione del genere. Tra chi non ha una copertura, il 37,7% è intenzionato a farlo, con una percentuale che raggiunge il 43% tra i 25-34enni. Oggi esistono diverse soluzioni che offrono garanzie diversificate, e a un costo tutto sommato ridotto, come la rimozione di contenuti lesivi dai social network o la copertura delle spese legali e di assistenza psicologica.

Lavoro, esiste il pericolo obsolescenza? Sì, ma non a breve

Solo il 14% dei posti di lavoro presenta un rischio di obsolescenza delle competenze nel prossimo triennio, secondo i risultati del Cegos Observatory Barometer ‘Transformations, skills and learning’. Il sondaggio annuale, condotto in 9 Paesi tra Europa, Asia e America Latina, coinvolge 5.048 dipendenti e 488 manager HR. I dati indicano che l’Intelligenza Artificiale (AI) e i big data sono considerati i principali fattori di impatto sull’organizzazione per lo sviluppo delle competenze, identificati rispettivamente dal 48% e dal 40% dei responsabili HR.

Le trasformazioni in atto avranno un impatto sulle competenze

Il 74% dei dipendenti ritiene che le attuali sfide della trasformazione tecnologica, climatica e sociale cambieranno il contenuto del proprio lavoro, con il 22% che esprime preoccupazione per la potenziale scomparsa del proprio impiego. Nonostante il 40% dei dipendenti (29% in Europa) affermi di sentirsi sopraffatto dalla tecnologia, il 79% dei lavoratori italiani esprime un sentimento contrario. Il 57% dei responsabili HR internazionali (38% in Italia) intende sostenere i dipendenti nell’aggiornamento delle competenze e nell’assunzione di nuovi profili, un aumento del 10% rispetto al 2022. Il 55% degli HR italiani considera lo sviluppo di skill per la mobilità interna e il ricollocamento come una priorità.

Occorre potenziare le digital skills

Il potenziamento delle digital skill (42%), seguito dalle soft skill (38%) e dal miglioramento delle competenze manageriali (35%), è l’obiettivo principale per gli HR. La transizione ecologica è in fondo all’elenco delle priorità. Il 63% degli HR manager prevede di utilizzare l’AI per personalizzare i percorsi formativi, ma solo il 10% l’ha già implementata. Nel complesso, il 31% dei dipendenti afferma di utilizzare o aver già utilizzato strumenti di AI generativa, come Chatgpt, per formarsi.

Necessaria la formazione continua 

Il 51% dei dipendenti si aspetta training on the job, mentre il 41% degli HR trova difficoltà nel conciliare l’offerta formativa con le esigenze dell’organizzazione. Nonostante ciò, il 47% degli HR intende offrire una formazione più personalizzata. L’85% dei dipendenti è aperto all’idea di una completa trasformazione di carriera per dare più significato alla propria vita professionale, e il 76% sarebbe disposto a partecipare a percorsi formativi al di fuori dell’orario di lavoro.

Alessandro Reati, HR Business Practice Leader di Cegos Italia, sottolinea l’importanza di adattare le competenze alle sfide della trasformazione digitale. L’AI è vista come una leva organizzativa, ma è necessario usarla al meglio per amplificare l’impatto della formazione nei processi aziendali. La ricerca di significato nel lavoro è crescente, e la formazione deve essere concreta, applicabile e generare integrazione e inclusione sociale.

Con l’AI la settimana lavorativa potrebbe accorciarsi a 4 giorni

Evitare la disoccupazione di massa, ridurre i disagi psicofisici legati al disequilibrio tra lavoro e vita privata, ma soprattutto, permettere a milioni di lavoratori di passare alla settimana lavorativa di quattro giorni entro il 2033.
È un obiettivo che potrebbe essere raggiunto introducendo modelli linguistici di grandi dimensioni, come ChatGPT, nei luoghi di lavoro.
È quanto sostiene il think tank Autonomy, che ha condotto uno studio 

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e ha rilevato come gli incrementi di produttività previsti dall’introduzione dell’Intelligenza artificiale al lavoro potrebbero ridurre la settimana lavorativa da 40 a 32 ore per 28 milioni di lavoratori in Gran Bretagna, e per 35 milioni negli Stati Uniti.
Ovviamente, mantenendo le medesime retribuzioni e prestazioni. 

Non solo redditività o “apocalisse occupazionale”

“In genere gli studi sull’AI e sui grandi modelli linguistici si concentrano esclusivamente sulla redditività o ‘sull’apocalisse occupazionale’ – dichiara Will Stronge, direttore della ricerca -, questa analisi cerca di dimostrare che quando la tecnologia viene impiegata al massimo delle sue potenzialità e viene rivolta a uno scopo preciso, può non solo migliorare le pratiche lavorative, ma anche l’equilibrio tra lavoro e vita privata”. 

Di fatto, grazie all’introduzione degli LLM l’88% della forza lavoro della Gran Bretagna potrebbe veder ridotto il proprio orario di lavoro di almeno il 10%. Le autorità locali di City of London, Elmbridge e Wokingham sono tra quelle che secondo Autonomy presentano il potenziale più elevato per i lavoratori, con il 38% o più della forza lavoro in grado di ridurre il proprio orario nel prossimo decennio.

Ridurre il lavoro del 10% per 128 milioni di americani

Lo studio condotto negli Stati Uniti da Autonomy ha rilevato che 128 milioni di lavoratori, il 71% della forza lavoro, potrebbero ridurre il proprio orario di lavoro di almeno il 10%.
In Stati come Massachusetts, Utah e Washington è stato riscontrato che un quarto o più dei lavoratori potrebbe passare a una settimana di quattro giorni grazie alle LLM.

“La nostra forza lavoro sta subendo cambiamenti sostanziali dovuti all’AI e l’automazione. Pertanto, sarà necessaria un’azione governativa per garantire che i guadagni di efficienza siano percepiti da tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore o dal livello di competenza”, spiega il deputato Mark Takano, che ha presentato al Congresso una proposta di legge sulla settimana lavorativa di 32 ore.

Un invito a responsabili politici, sindacati e industria

Lo studio di Autonomy ha lo scopo di suggerire ai datori di lavoro del settore pubblico e privato di sfruttare l’opportunità di diventare leader mondiali nell’adozione dell’AI per migliorare la vita di centinaia di milioni di lavoratori.

Il documento invita i responsabili politici ad agire in tale direzione, riporta AGI. “Penso che sarebbe davvero impressionante la costruzione di una solida strategia industriale basata sull’AI, con centri di automazione in cui sindacati, industria ed esperti di questa tecnologia si riuniscano per aumentare la produttività – sottolinea Stronge -; il che comporterebbe anche conseguenti miglioramenti per i lavoratori”. 

Investire nell’economia circolare è un vantaggio economico e competitivo

La circolarità è percepita sempre più come un elemento essenziale dal tessuto industriale italiano, e l’incremento degli investimenti in questo ambito dimostra come le imprese inizino a credere nell’utilità dell’economia circolare. Lo conferma l’Osservatorio CleanTech, ‘Sostenibilità Ambientale, Economia Circolare ed Efficienza Energetica nelle Pmi e nelle Grandi Imprese’, condotto da Eumetra per conto di Innovatec e Circularity.
Per quasi 2 aziende su 3 gli investimenti nell’economia circolare generano un maggiore ritorno economico. Non solo: per il 50% delle aziende migliora anche la reputazione e per il 33% si ottiene un vantaggio competitivo rispetto ai competitor. Insomma, nel 2023 il 62% delle imprese italiane conosce bene il concetto di economia circolare, e ha acquisito consapevolezza sui vantaggi concreti degli investimenti in progetti di sostenibilità, anche dal punto di vista industriale.

Un dato ancora basso, ma raddoppiato

Ma se in un anno raddoppiano le imprese italiane che hanno investito nell’economia circolare, il dato resta ancora basso: 16% nel 2023 contro il 9% del 2022. Il dato è significativamente più alto nelle grandi imprese (40%), e gli investimenti riguardano soprattutto l’approvvigionamento di materiali riciclati (64%) e il riciclo di scarti di produzione (61%). Solo il 14% degli investimenti è destinato a progetti di simbiosi industriale. In ogni caso, nei prossimi anni il 44% delle aziende ha intenzione di investire ancora di più in progetti di sostenibilità, e il 37% in progetti di economia circolare.

Cosa ostacola l’impegno verso la sostenibilità?

L’Osservatorio si focalizza anche sulle barriere che bloccano gli investimenti. Per quasi la metà delle imprese intervistate (47%) è la mancanza di competenze in azienda a ostacolare l’impegno verso la sostenibilità. Un dato che risulta in crescita rispetto al 36% rilevato lo scorso anno.
Inoltre, per il 41% delle imprese la normativa è ancora troppo complicata (nel 2022 lo dichiarava il 16% delle imprese), a maggior ragione sui temi della circolarità. La tecnologia non sembra invece essere un problema: ne lamenta la mancanza solo il 12% del campione.

Il ruolo fondamentale delle piattaforme digitali

Ai fini della promozione dell’economia circolare lo sviluppo di piattaforme digitali assume un ruolo fondamentale, consentendo ai diversi attori coinvolti di collaborare per estendere il ciclo di vita dei prodotti. L’innovazione digitale rappresenta uno dei principali punti di forza della nuova versione della Circularity Platform, la piattaforma tecnologica lanciata nel 2018 che attiva e facilita la collaborazione tra aziende in ottica di simbiosi industriale. Questo, grazie all’applicazione di modelli di calcolo avanzati di elaborazione di dati, che classificano gli operatori in base a parametri ambientali e sistemi di geo-localizzazione per consentire la tracciabilità dell’intera filiera dei rifiuti, dei sottoprodotti e dei materiali end of waste.

Mondo attuale e diseguaglianze: cosa serve per una società più equa?

Le disuguaglianze sono una realtà sempre più evidente nelle società contemporanee, rappresentando una disparità significativa nelle opportunità, risorse e diritti tra individui e gruppi. Questo problema riveste una grande importanza sociale ed economica, e richiede una particolare attenzione. Per comprendere meglio l’ampliarsi delle disuguaglianze, i suoi effetti e le ripercussioni sulla coesione sociale e il disagio, Ipsos ha avviato il ciclo di studi chiamato Ipsos Equalities Index. Si tratta di un’indagine a livello internazionale che esplora la percezione delle persone sulle disuguaglianze e le discriminazioni subite da diversi gruppi, valutando i progressi compiuti e individuando le strategie per rendere la società più equa.

Le disuguaglianze sociali sono le più condivise

L’obiettivo principale di questa iniziativa è monitorare continuamente le dinamiche nel corso del tempo. Vediamo i principali risultati emersi. L’Indice Ipsos sulle Disuguaglianze si concentra principalmente sulle disuguaglianze sociali, ovvero quelle legate alle differenze di posizione sociale e al trattamento ricevuto in base a caratteristiche personali o di gruppo, come genere, etnia, religione, orientamento sessuale, identità di genere e abilità. Nei 33 Paesi presi in esame, in media il 52% delle persone considera le disuguaglianze un problema importante da affrontare (stessa percentuale registrata anche in Italia).

Disabili e donne le categorie che subiscono più discriminazioni

Tra i gruppi ritenuti più discriminati, le persone con disabilità fisica sono considerate quelle che subiscono la maggior discriminazione. Seguono le donne, le persone con disturbi mentali e quelle appartenenti alla comunità LGBT+. In Italia, le donne e le persone appartenenti alla comunità LGBT+ sono indicate come le più discriminate, seguite da coloro con disabilità fisica e gli immigrati.

I Gen Z i più sensibili alle disuguaglianze

L’Ipsos Equalities Index ha rivelato che la Generazione Z (nata tra il 1996 e il 2012) è la generazione più sensibile alle disuguaglianze rispetto alle precedenti. Ogni generazione successiva ha maggiori probabilità di considerare le disuguaglianze un problema importante nel proprio Paese rispetto a quella precedente. Gli “Baby Boomer” (nati tra il 1945 e il 1965) sono l’unica generazione in cui la maggioranza assoluta non ritiene le disuguaglianze un problema molto serio da affrontare. Le persone più giovani stanno gradualmente abbandonando l’idea del “se vuoi puoi” e diventano sempre più scettiche riguardo all’idea di vivere in una società meritocratica. Credono che i fattori strutturali siano più determinanti per il successo nella vita, rispetto al proprio controllo diretto. La Generazione Z è anche incline a pensare che una società veramente giusta sia basata sul principio di equità, riconoscendo che non tutti partono dallo stesso punto e che occorre apportare modifiche agli squilibri.

I giovani (e i benestanti) i più “evoluti”

Tuttavia, ci sono alcune eccezioni degne di nota riguardanti l’ageismo e il genere. I più giovani sono meno propensi a considerare gli anziani un gruppo discriminato, anzi, la Generazione Z ritiene che i giovani siano trattati peggio degli anziani. Inoltre, i più giovani sono meno propensi a credere che le donne siano ancora discriminate, indicando una crescente sensazione che gli uomini siano trattati ingiustamente. Un risultato sorprendente è che le persone più ricche e istruite sono quelle più sensibili alle disuguaglianze. Non solo riconoscono il problema, ma sostengono che si debba fare di più per combattere le disuguaglianze. Le persone più abbienti sono anche più propense a ritenere giusto garantire un accesso equo alle risorse e alle opportunità per tutti.

L’80% degli italiani è soddisfatto del proprio lavoro

L’80% degli italiani si considera soddisfatto del proprio lavoro. Tuttavia, la retribuzione occupa solo il terzo posto tra i motivi di tale soddisfazione. Realizzazione personale, formazione e opportunità di crescita professionale sono infatti considerati i fattori determinanti. Mantenere un equilibrio tra lavoro e vita privata è un elemento che conquista il quarto posto di questa classifica, mentre  godere di un buon clima lavorativo è al quinto. Sono alcuni dei dati che emergono dalla ricerca Ipsos commissionata da Amazon: ‘Il futuro del lavoro: viaggio attraverso la percezione del lavoro nell’Italia di oggi’.

L’identikit del lavoro ideale

Molte di queste caratteristiche ritornano anche nella descrizione del lavoro ideale. Sebbene la stabilità garantita da un reddito fisso e costante nel tempo rimanga un aspetto importante per oltre la metà degli italiani, un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata è il fattore determinante anche quando si pensa all’occupazione “perfetta”. La meritocrazia e un clima positivo sul posto di lavoro sono indicati da quattro italiani su dieci. In generale, i lavoratori italiani preferirebbero una formula che consenta di alternare il lavoro in presenza con il lavoro da remoto (52%), ritenendo che questa sia una scelta condivisa anche da molte aziende. Emerge con forza anche una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori, che non sono più disposti ad accontentarsi. Il 56% cerca un’occupazione in linea con il proprio percorso di studi senza fare compromessi, o che sia compatibile con i propri interessi e passioni.

Dati in linea con quelli del Paese

Parallelamente all’indagine condotta da Ipsos sul campione nazionale, gli stessi quesiti sono stati rivolti anche ai dipendenti di Amazon in Italia. Dalla ricerca parallela sono emersi dati in linea con quelli del Paese: infatti, se il 90% dei dipendenti Amazon si dichiara soddisfatto, il 62% di loro si considera “estremamente o molto soddisfatto”, a differenza del 47% del campione generale.
“L’obiettivo per cui abbiamo commissionato questa ricerca ad Ipsos è stato guidato dalla nostra aspirazione a diventare il miglior datore di lavoro del mondo. Per raggiungere questo obiettivo, è fondamentale ascoltare non solo i nostri dipendenti, ma anche il contesto locale in cui operiamo”, ha dichiarato Lorenzo Barbo, amministratore delegato di Amazon Italia Logistica. Anche per i dipendenti Amazon, i temi legati alla formazione e alla crescita professionale confermano i motivi principali di soddisfazione (68% rispetto al 47% del campione generale), mentre retribuzione e benefit si collocano al secondo posto (61% rispetto al 40% del campione generale). Un buon rapporto con i colleghi e un clima lavorativo positivo contano per oltre il 40%.

Il mondo del lavoro è migliorato negli anni? Pare di no

Solo il 19% degli intervistati ritiene che il mondo del lavoro sia migliorato negli ultimi anni, mentre per il 57% è peggiorato, soprattutto in termini di retribuzione, welfare e benefit (63%), ambiente di lavoro e valori aziendali (51%), flessibilità ed equilibrio tra lavoro e vita privata (48%). L’evoluzione del lavoro ha coinvolto anche le professioni stesse: un terzo degli intervistati ha dichiarato di svolgere un lavoro che dieci anni fa non esisteva o che non era presente all’interno della propria azienda. Questo dato aumenta significativamente nel caso specifico di Amazon, dove quasi la metà dei dipendenti (46%) ricopre una posizione completamente nuova.

Grandi Dimissioni? C’è chi è pentito: è il fenomeno del Great Regret

Il fenomeno delle Grandi Dimissioni, che ha caratterizzato l’uscita dalla pandemia, sembra essere tutt’altro che concluso. Secondo i risultati della ricerca condotta dall’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, negli ultimi 12 mesi in Italia il 46% dei lavoratori ha cambiato lavoro o ha intenzione di farlo, una percentuale che raggiunge il 77% per gli under 27. E il 55% di chi dice di voler cambiare lavoro sta già facendo colloqui. Ma non tutti quelli che lo hanno fatto hanno trovato quel che cercavano. Il 41% si è infatti pentito della scelta fatta. Si tratta del fenomeno conosciuto negli Stati Uniti come Great Regret, che in Italia caratterizza maggiormente gli uomini e le persone con più di 50 anni di età. 

Ma ci sono anche i Quiet Quitter e i Job Creeper

Un altro trend emergente è quello dei cosiddetti Quiet Quitter. Il 12% dei lavoratori italiani, circa 2,3 milioni, oggi si limita a fare il minimo indispensabile e non è coinvolto emotivamente nelle attività lavorative. Questo, perché non si sente valorizzato nei propri talenti e ha deciso di ‘spegnersi’, utilizzando al minimo le proprie energie sul lavoro.
All’estremo opposto, c’è un 6% di lavoratori, circa 1,1 milioni, di cosidetti Job Creeper, ovvero coloro che non riescono a smettere di lavorare, anche nei momenti in cui ci si dovrebbe dedicare alla vita privata. Fenomeni diversi, ma che entrambi sono sintomo di un malessere diffuso.

Un mercato del lavoro travagliato

D’altronde, oggi solo il 7%, dei lavoratori, circa 1,3 milioni, dichiara di essere ‘felice’. E solo l’11% sta bene in tutte e tre le dimensioni del benessere lavorativo, psicologica, relazionale e fisica.
Ma l’aspetto più critico è quello psicologico. Il 42% dei lavoratori ha avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere psicologico o relazionale.
Ma in questo mercato del lavoro così travagliato si aggiunge un’altra criticità. Il 59% delle organizzazioni prevede una crescita dell’organico nel 2023, ma il 94% ha difficoltà ad assumere nuovo personale. Una difficoltà che riguarda in primis le professionalità digitali, ma non solo. Mancano infatti anche profili tecnici, operai e manutentori.

La Direzione HR deve trasformarsi per supportare le persone e l’azienda

“In questo contesto di grande cambiamento la Direzione HR ha di fronte sfide importanti. Per riuscire a trasformare sé stessa ed essere di reale supporto alle persone e all’organizzazione, l’innovazione tecnologica può giocare un ruolo fondamentale – afferma Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice -. Tra le principali difficoltà per le organizzazioni, c’è quella di comprendere le competenze che saranno necessarie nei prossimi 3-5 anni per pianificare in maniera strategica le attività di riqualificazione, fondamentali per garantire l’impiegabilità futura delle persone e il successo del business. Ma solo il 15% ne ha chiara consapevolezza”.

Crisi bancaria: quanto si fidano gli italiani nelle banche?

Quanto si fidano gli italiani delle banche nel 2023? Secondo una rilevazione Ipsos, attualmente la fiducia degli italiani nelle banche si ferma poco sotto il 30%, con il 61% dell’opinione pubblica che mostra netti segni di dissenso. Bassa è anche la valutazione della Banca Centrale Europea del ‘dopo Mario Draghi’, con voti positivi espressi da appena un terzo dell’opinione pubblica. Percentuali analoghe se le aggiudica anche la Borsa, con un quadro di fiducia che si ferma appena sopra al 30%.
Dopo la pandemia da Covid-19, la guerra in Ucraina, il caro energia, l’inflazione, la crescita del costo del denaro e la lievitazione dei mutui, ora arriva quindi l’ennesima crisi che coinvolge le banche.

Dal crollo della Silicon Valley Bank al caso Credit Suisse

I timori di un’altra crisi bancaria sono riemersi nelle scorse settimane dopo le notizie del crollo della Silicon Valley Bank, il secondo più grande fallimento bancario nella storia degli Stati Uniti, e la vicenda relativa all’istituto di credito Credit Suisse, acquisita poi da UBS, la più grande Banca Svizzera. Ma la disillusione nelle banche, dopo il grande crollo degli anni 2007-2008, non si è mai ripresa fino in fondo. La nuova crisi riapre vecchie ferite, anche perché l’opinione pubblica italiana vive da anni un deficit di fiducia complessivo: oltre due terzi dei cittadini affermano di non fidarsi né delle imprese né delle banche, ritenendo che entrambe siano troppo disposte a scaricare costi e incapacità sui consumatori.

La delusione verso gli istituti di credito continua a crescere

Il dato di delusione, in crescita nel corso degli ultimi anni e passato dal 65% di fine 2020 al 69% di oggi, è principalmente evidente tra le donne (74%), i ceti popolari (80%) e i residenti nelle isole e nel centro Italia (75%). Accanto a questo sentimento di sfiducia si associa la convinzione che i soggetti dotati di maggiori risorse economiche siano completamente scollegati dal resto della realtà sociale italiana. Per il 75% dell’opinione pubblica, infatti, i cosiddetti ‘esperti’ non comprendono le esigenze delle persone comuni. Un sentimento di distacco che prolifera soprattutto tra i ceti popolari (82%) e le donne (78%).

Troppe aspettative non soddisfatte

La delusione verso il mondo bancario è accentuata anche dal fatto che gli italiani vorrebbero trovare nella banca un soggetto su cui contare. Quasi il 40% vorrebbe che gli istituti di credito fossero maggiormente impegnati a generare tranquillità a chi affida loro i propri risparmi. Un sesto del Paese, inoltre, ritiene che le banche debbano essere parte integrante della comunità ed essere impegnate nella crescita dei contesti locali e nel rafforzamento delle microeconomie. Quasi un quarto dell’opinione pubblica poi ritiene che gli istituti di credito non debbano pensare solo a sé stessi, ma essere protagonisti della crescita della collettività, sostenendo famiglie e imprese, e creando opportunità per i giovani e le giovani famiglie.

Anche con la crisi cresce la ricchezza. E gli investimenti immobiliari

Nel 2022, nonostante il periodo di instabilità e incertezza, quattro su dieci tra gli ‘ultra-high-net-worth individuals’ (UHNWI), gli individui con un patrimonio netto elevato, hanno registrato una crescita della propria ricchezza. Lo attesta l’ultimo Wealth Report pubblicato da Knight Frank. E secondo l’Attitude Survey, condotta lo scorso novembre su oltre 500 investitori tra banchieri, advisor e family officer (gestori di patrimoni familiari), in questo scenario il real estate si riconferma la migliore opportunità di investimento per il 46% degli intervistati. A livello globale, la media delle case di proprietà degli UHNWI è di 4,2 e addirittura di 5 in Asia, trend che dimostra il forte interesse in generale nei confronti degli immobili. I compratori più attivi, inoltre, si trovano in Medio Oriente.

Uno scudo contro l’inflazione

“L’immobiliare rappresenta uno dei migliori settori di investimento, come scudo contro l’inflazione o per diversificare il proprio portfolio – commenta Flora Harley, Partner del Dipartimento di Ricerca Residenziale di Knight Frank -. Un intervistato su dieci è alla ricerca di soluzioni sicure, controllabili e dal grande valore aggiunto, e le trova nel real estate”. Si prevede però che gli alti tassi di interesse comporteranno un rallentamento della domanda nel mercato immobiliare residenziale per il 2023. Il 15% degli UHNWI sta cercando una casa da acquistare contro il 20% dell’anno precedente. Secondo il sondaggio, Stati Uniti, Regno Unito e Spagna sono le tre migliori location per acquistare una casa. Australia e Francia completano la classifica delle top 5.

Per gli UHNWI il real estate è un’opportunità

Il real estate rappresenta una vera e propria opportunità per gli UHNWI. A livello globale, un intervistato su cinque sta pianificando investimenti diretti nel settore immobiliare per il 2023, mentre il 13% è alla ricerca di opportunità indirette. Il dato è abbastanza in linea con il 20% dello scorso anno, riconfermando l’attrattiva del mercato nonostante l’incertezza economica. Salute, logistica/industria, uffici, affitti privati, e hotel/svago sono i settori più appealing nel 2023 per circa un terzo degli intervistati.

“Stiamo entrando in una nuova fase di mercato”

A fronte di un investimento immobiliare, i buyer prendono sempre più in esame fattori come fonti energetiche (57%), opportunità di ristrutturazione (33%) e materiali utilizzati, in particolare per ridurre l’impronta carbonica (30%).

“Con il 68% degli UHNWI che si aspetta una crescita della ricchezza nel 2023, prevediamo cambiamenti nelle strategie di diversificazione del portafoglio, con il settore del real estate che gioca un ruolo sempre più rilevante negli ultimi anni – spiega Liam Bailey, Global Head del Dipartimento di Ricerca di Knight Frank -. La pressione al ribasso sui valori degli immobili, dovuta a tassi di interesse più elevati, ha creato una finestra per il capitale privato, in particolare perché stiamo entrando in una nuova fase di mercato con minimi storici in termini di stock di proprietà di fascia alta nei mercati residenziali e commerciali”.

Grandi dimissioni: conviene mettersi in proprio?

Sebbene in America nuovi studi stiano evidenziando una fascia di ‘pentiti’ (in particolare, uno su quattro), che oggi tornerebbe sui propri passi, il fenomeno delle Grandi Dimissioni non sembra fermarsi. Il fenomeno delle Grandi dimissioni è emerso con grande evidenza con la fine della pandemia e con la ripresa teorica del lavoro secondo i vecchi canoni.

“Molti dipendenti hanno iniziato a riesaminare, anche in modo radicale, il bilanciamento tra lavoro e vita privata, finendo in molti casi con il dimettersi, alla ricerca di nuovi equilibri maggiormente orientati verso la qualità della seconda”, spiegano Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-managing Partner di Littler Italia. Ma come capire se lasciare il lavoro, magari, per mettersi in proprio, è la decisione giusta?

Tra burnout, scarsa motivazione e quiet quitting 

“Mettersi in proprio non è una scelta adatta a tutti – chiarisce Nicola Palmieri, Youtube creator e imprenditore digitale -. Se da una parte puoi godere di grande autonomia decisionale ed economica, dall’altra dovrai affrontare un percorso in solitaria”.

In un periodo di burnout e scarsa motivazione, individuare ciò che appassiona può essere un esercizio non semplice. Basti pensare alle proporzioni che sta assumendo il ‘quiet quitting’, soprattutto tra la Generazione Z. Si tratta dell’ultima tendenza a fare il minimo indispensabile al lavoro, fuori dalla logica del sacrificio e degli straordinari. In America il quiet quitting riguarda metà dei dipendenti e in Europa la situazione non è migliore. Secondo un report di Gallup, sarebbero a malapena il 14% i lavoratori che oggi si sentono davvero coinvolti nella propria attività.

Creare qualcosa di nuovo richiede tempo e la conoscenza di strumenti digitali

Capire, poi, quali passioni siano realmente ‘monetizzabili’ è uno step successivo fondamentale, se si vuole davvero cambiare vita.
“Dobbiamo prepararci a smontare e successivamente tentare di migliorare le idee che abbiamo raccolto, per creare qualcosa di unico e mirato su un pubblico specifico. Un percorso che richiede studio, tempo, metodo e la conoscenza di strumenti digitali – continua Palmieri -. Per capire se un’idea vale il rischio di lasciare il lavoro, dobbiamo testarla sui primi clienti con un Mvp (Minimum Viable Product), ossia un prototipo di base per ottenere i feedback iniziali, in grado di guidarci nell’affinamento del progetto”.

Scegliere il lavoro autonomo o lasciare l’azienda?

La strada del lavoro autonomo, riporta Adnkronos, è dunque stimolante, ma piena di sfide. Perché si dovrà poi creare e valorizzare il proprio personal brand, individuare i giusti canali con cui promuoversi, imparare tecniche di vendita, e accettare i fallimenti. E così per molti l’impiego da dipendente resta l’alternativa più adeguata, senza rinunciare a quel cambio di equilibrio che si fa sempre più urgente e irreversibile. Un aspetto su cui si giocherà la competitività del mercato del lavoro nei prossimi anni.